Il labirinto, topos letterario ed artistico…luogo di riflessione
Presso l’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia si trova, grazie all’impegno della Fondazione Giorgio Cini, un labirinto[1] costruito in onore del grande scrittore argentino Jorge Louis Borges in occasione del venticinquennale della sua morte, avvenuta nel 1986.
Il labirinto, creato con siepi di bosso, è esteso per più di 2000 metri quadrati ed è cosparso di simboli cari allo scrittore, come il bastone, gli specchi, la clessidra, la sabbia, la tigre, il punto interrogativo. L’opera, realizzata sulla base del disegno dell’architetto inglese Randoll Coate, è ispirata al racconto “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, pubblicato nel 1941, in cui Borges evoca alcuni dei temi tipici della sua narrazione parlando di un labirinto che si rivela essere in realtà un libro. L’autore di quest’ultimo, il cinese Ts’ui Pen, antenato del protagonista, nel mostrare tutte le possibili conseguenze di un evento e l’infinita trama delle varianti temporali, le biforcazioni, cui i diversi modi di sciogliere un singolo evento possono condurre, cerca di restituirci un’immagine dell’universo quale lui lo concepiva: “A differenza di Newton e di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte possibilità.”[2]
Il labirinto è, per definizione, un allontanamento dalla via retta, è un percorso tortuoso fatto di meandri, incroci, spesso anche di biforcazioni ingannevoli, false piste, deviazioni che non conducono alla meta. Come osserva Borges: “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”[3].
Umberto Eco ci aiuta a comprenderne le tre fondamentali tipologie. La prima è quella dei labirinti univiari, quella del labirinto classico di Cnosso, la dimora del Minotauro, che prevede un unico cammino, per quanto tortuoso, dall’entrata al centro e dal centro all’uscita. Se la sua struttura si potesse srotolare essa si identificherebbe con un unico filo, il filo di Arianna. La seconda tipologia, apparsa tra Manierismo e Barocco è il labirinto multiviario, l’Irrweg, in esso “tutti i percorsi portano ad un punto morto salvo uno. Vi si possono commettere errori, si è obbligati sovente a tornare sui propri passi e tentare un altro cammino. Se l’Irrweg fosse srotolato, non apparirebbe come un filo bensì come un albero a disgiunzioni binarie, pieno di vicoli ciechi”[4]. Un esempio di questo tipo di labirinto sono la rete fognaria di Parigi immaginata da Victor Hugo ne I Miserabili o molti labirinti apparsi in Europa tra XVI e XVI secolo sotto forma di giardino.
Infine, “il labirinto del terzo tipo è una rete, in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro punto. Una rete non può essere srotolata. Anche perché, mentre i labirinti dei primi due tipi hanno un interno (il loro proprio intrico) e un esterno, da cui si entra e verso cui si esce, il labirinto di terzo tipo, estensibile all’infinito, non ha né esterno né interno”[5]. Un esempio di rete è il concetto di rizoma di Deleuze e Guattari, un altro (ma Eco lo definisce una caricatura) è il web, dove ogni nodo, attraverso un insieme infinito di connessioni ipertestuali, può condurci ad un altro qualsiasi nodo della reta stessa[6].
Il labirinto è un topos che ricorre nella storia dell’arte fin dai tempi dell’antichità ed è anche un tema che ha avuto una notevole fortuna narrativa.
Per citare alcuni esempi tratti dalla storia dell’arte, si pensi ai labirinti disegnati nei pavimenti musivi delle ville romane, a quelli delle cattedrali medioevali, ai tracciati dei giardini del rinascimento o ai soffitti dipinti di residenze illustri.
Vale la pena osservare che, nell’iconografia delle chiese cristiane del medioevo, il labirinto, peraltro sempre univiario, assume un duplice significato: da una parte simboleggia la confusione di coloro che perseguendo la via del peccato si allontanano da Dio; dall’altra rappresenta il cammino della redenzione dell’umanità e la vittoria di Cristo contro Minotauro/Satana[7].
Qui la tradizione cristiana si innesta in qualche modo sulla cultura pagana. L’archetipo mitologico del labirinto infatti, quello ideato da Dedalo a Creta, fu costruito affinché un essere mostruoso ne fosse il signore ed al tempo stesso il prigioniero: il Minotauro, creatura dal corpo umano e la testa di toro, nata dall’accoppiamento contro natura di sua madre Pasifae con un toro di cui si era innamorata.
Come racconta il mito, ogni anno (secondo certe fonti ogni sette, secondo altre ogni nove), sette fanciulli e setta fanciulle, imbarcati su di una nave dalle vele nere, erano condotti a Creta per essere dati in pasto alla creatura che abitava il labirinto, pratica che durò fino a quando Teseo, munito del filo che Arianna gli aveva fornito per non perdersi nel labirinto stesso, non riuscì nell’impresa di abbattere il mostro cannibale.
Ogni epoca ha rappresentato il labirinto in modo diverso, dalla leziosità delle stampe barocche all’attenzione scientifica dell’illuminismo settecentesco, fino alle contaminazioni ottocentesche che attingono a tutti gli stili precedenti.
Ma il secolo che più di ogni altro ha celebrato il labirinto, vissuto in tutte le sue sfaccettature, artistiche, filosofiche, poetiche, psicoanalitiche, è il novecento.
Picasso, Pollok, Escher daranno alcune delle testimonianze più significative in ambito figurativo. Per fare qualche esempio in campo letterario, Gabriele D’Annunzio ambienta un episodio del suo romanzo Il Fuoco nel labirinto di Villa Pisani a Stra, Umberto Eco inserisce un labirinto nella trama de Il Nome della Rosa, Italo Calvino ne Il Conte di Montecristo, ci propone un labirinto mutevole quale rappresentazione del carcere sito nell’Isola di If.
Anche nel cinema il tema del labirinto ha ispirato molte opere, si pensi a Maze Runner o a Cube e non possiamo omettere un cenno alla classica scena finale di Shining, di Stanley Kubrick, che ritrae il corpo assiderato di Jack Nicholson all’interno di un labirinto botanico[8].
Un capitolo a parte meriterebbe Borges[9]. Si è già detto de Il giardino dei sentieri che si biforcano; all’interno della breve storia I Due Re e I Due Labirinti è il deserto arabico, sconfinato ed inospitale, che viene assimilato ad un labirinto, mentre nel racconto Abenjacàn il Bojarì ucciso nel suo Labirinto[10], una storia di avidità e di odio, il labirinto è ambientato in Cornovaglia, in vista dell’oceano, e si rivela essere la trappola fatale in cui è attirato, ucciso e sfigurato un forestiero venuto dalle lontane terre del Sudan. Il delitto è ricostruito e risolto da due giovani investigatori dilettanti, un matematico ed un poeta, grazie ad una riflessione sul mito del labirinto di Creta. Non si può non ricordare poi La Biblioteca di Babele (1941), descritta come un edificio labirintico i cui libri contengono tutte le possibili combinazioni dei simboli ortografici, una biblioteca che si identifica con l’universo stesso. “L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere”[11]. La biblioteca “è totale” e custodisce “tutto ciò che è dato di esprimere, in tutte le lingue”[12].
Potente, per il rovesciamento della prospettiva che opera, è il racconto La Casa di Asterione[13], pubblicato nel 1949, in cui l’universo è descritto dal punto di vista del Minotauro: per quest’ultimo il mondo ha le sembianze del labirinto stesso (“la casa è grande come il mondo”) e “tutto esiste molte volte, infinite volte” così come “tutte le parti della casa si ripetono, qualunque luogo di essa è un altro luogo”; “soltanto due cose al mondo sembrano esistere una sola volta: in alto l’intricato sole; in basso Asterione”[14]. L’essere biforme vive nell’attesa di un redentore e, lo si apprende alla fine del racconto, non opporrà resistenza a Teseo, venuto per ucciderlo. La stessa identificazione dell’universo con un labirinto infinito ci è proposta da Borges nel racconto la Sfera di Pascal: “in quel secolo disanimato, lo spazio assoluto che era stato una liberazione per Bruno, fu un labirinto e un abisso per Pascal” “…una sfera spaventosa, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo”[15].
Nel 1985 Friedrich Dürrenmatt scrisse un racconto, intitolato Il Minotauro, che contiene alcuni temi borgesiani. Qui il labirinto è descritto come una casa di specchi. La creatura mitologica è presentata, con simpatia e compassione, come un essere a metà tra l’animale e l’uomo, dotato di istintività e privo di intenzioni malvage, capace di percepire più che di comprendere in modo concettuale, capace di una “illuminazione senza conoscenza” fatta di immagini e di sensazioni. Abbandonato in un universo di immagini riflesse, obbligato ad una condizione di solitudine ed esclusione, il minotauro è ritratto nel momento in cui si fa strada in lui la consapevolezza confusa di essere solo: “cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto. Avvertì che non esistevano tanti minotuari, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito”[16]. Il minotauro di Dürrenmatt troverà la morte per mano di un Teseo travestito da minotauro ed anche lui, come Gerione di Borges, morirà senza combattere veramente.
Parlando del novecento, è interessante notare come, a partire dagli anni venti e trenta del secolo scorso fu proprio la figura del Minotauro ad attrarre molti artisti che si muovevano sotto le bandiere del surrealismo: il Minotauro rappresentava l’Es, l’inconscio, “’oscura parte istintuale di cui la psicoanalisi aveva, con i suoi strumenti, rivelato l’esistenza (che) diventava visibile e pubblica nella parte taurina di quell’essere biforme e cannibale.”[17]. Per gli artisti che collaboravano con la rivista Minotaure (tra cui Pablo Picasso, Marcel Duchamp, Joan Mirò, Salvador Dalì, Henri Matisse, Renè Magritte, Andrè Masson), “la figura della bestia mostruosa è al tempo stesso l’emblema della rivolta creatrice (in particolare quella dei surrealisti) e l’annuncio della guerra che sarebbe venuta, della violenza, del caos, del fuoco, dei massacri”[18].
I labirinti continuano ad essere straordinarie “prove d’artista” nelle mostre d’arte contemporanea che nel 2017 sono state proposte in alcune città italiane. Solo in quest’anno alla Biennale di Venezia il padiglione greco ha proposto il labirinto di Geoges Drivas, mentre a Palazzo Fortuny, in occasione dell’esposizione temporanea Intuition, Axel Vervoordt e Tatsuro Miki hanno progettato il loro labirintico Wabi. A Villa Pansa (Varese), Robert Irwin nel 2013 aveva già dato, con una sua installazione, la sua straordinaria interpretazione immersiva del labirinto di luce, mentre a Roma il labirinto inganna con un dedalo di specchi nell’opera LeandrKubriko Erlich esposta nel Chiostro del Bramante nell’ambito dell’evento Enjoy.
Il labirinto, tema ricorrente nell’arte e nella letteratura, ha assunto significati simbolici e metaforici diversi nella storia e presso i diversi artisti ed autori.
Se il labirinto del mito era al tempo stesso prigione e dimora del mostro, i labirinti musivi posti in prossimità delle ville romane, costituivano “diaframmi, barriere apotropaiche in grado di proteggere la casa dagli spiriti dei morti o dai demoni; ma erano soprattutto status symbol, oltreché cose belle da guardare”[19]. Abbiamo già accennato alla duplice funzione simbolica che la rappresentazione del labirinto ha assunto nelle chiese medievali: è interessante notare che i labirinti multiviari realizzati sotto forma di giardino nel XVI secolo erano caratterizzati da rigore geometrico e dall’”esclusione di ogni simbolo cristiano”, “interamente dedicati a celebrare il ritorno del paganesimo”[20]. In questo ambito si può segnalare che i labirinti di quest’epoca erano spesso vissuti come luoghi in cui gli amanti potevano perdersi per amoreggiare e dedicarsi ad incontri segreti. L’accostamento tra labirinto ed amore del resto era già stato suggerito da Petrarca: “voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge, /…nel laberinto entrai, né veggio ond’esca”[21].
Parlando di labirinti ambientati in un giardino, uno dei più famosi è quello fatto costruire da Luigi XIV presso la reggia di Versailles, ultimato nel 1677. Progettato da André Le Notre, Charles Perrault[22] ed altri, il labirinto accoglieva il suo visitatore facendolo passare tra due statue, quella di Esopo e quella di Amore. Il tracciato lo conduceva poi attraverso un dedalo di sentieri ed incroci punteggiati di fontane composte da due o più animali che mimavano l’azione di una piccola scena. La morale di questa composione era ispirata dalle favole di Esopo ed era inscritta, nella forma di quartine composte dal poeta Isaac De Benserade, in placche poste ai piedi dei gruppi di sculture[23]. Forse concepito come strumento d’istruzione per il giovane Delfino di Francia (ma la tesi non è provata[24]), questo giardino-labirinto doveva sicuramente offrire a chi vi addentrava spunti per riflessioni e pensieri tanto più efficacemente stimolati quanto più erano frutto dell’esperienza spaziale e delle scelte di direzione decise dal visitatore. Da questo punto di vista, il labirinto delle favole svolgeva la funzione di una metafora spaziale sotto forma di giardino in cui, attraverso il disegno di un tracciato che impone di scegliere un percorso e conduce ad una serie di immagini correlate che illustrano le conseguenze delle diverse scelte morali, il comportamento stesso del visitatore assume un significato metaforico.[25]
Se la metafora, nel suo uso linguistico, è una figura retorica che si base sullo spostamento del significato di una parola o di una locuzione, una metafora di paesaggio (“landscape metaphor”) prende forma attraverso lo spostamento di un soggetto attraverso uno spazio, un paesaggio appunto, e la ricostruzione ed interpretazione che il soggetto forma nella propria mente di questo spostamento, alla luce del suo orizzonte culturale[26].
Vale la pena d’altra parte osservare che una certa ambiguità negli intenti era forse presente anche nella concezione del labirinto di Versailles. Michel Baridon[27] fa notare che accanto alla lettura edificante delle opere scultoree esposte nel giardino, ispirata alla riduzione poetica delle favole di Esopo fatta da Benserade, ve ne era un’altra, suggerita proprio da Charles Perrault, uno degli ideatori del labirinto[28]. In quest’opera delle stesse favole si dà un’interpretazione di tipo galante ed il labirinto è presentato come un percorso obbligato per chi vuole riuscire in amore. Così per esempio, se la morale della favola che racconta del combattimento degli animali[29] stigmatizza, nella versione di Benserade, il comportamento immorale di colui che tradisce la sua parte, la morale galante presentata da Perrault sottolinea che quando ci si è invaghiti degli occhi di una bella donna, bisogna essere insensibili ad ogni altra attrazione e rimanervi fedeli fino alla morte[30].
In fondo, di questa ambiguità non c’è da stupirsi. Ancora una volta si è posti di fronte alla ricchezza di interpretazioni che può scaturire dall’esperienza dell’intricato dedalo.
“I labirinti suppongono dei percorsi iniziatici, dei disorientamenti, delle scoperte di sé stesso, l’identità e le alterità trovate, gli incontri amorosi e talvolta violenti, i combattimenti, la tenerezza e la crudeltà, molto spesso le astuzie, le cacce, le trappole, le imboscate, gli incroci, talvolta anche i giochi infantili di nascondino, le cospirazioni, i complotti, le derive gli spostamenti. Chi entra in un labirinto sceglie le pulsioni e, simultaneamente, una logica, il gioco e la mistica, i rischi e la saggezza. Passa da un luogo psichico a un altro, da un ambiente emozionale a un altro.”[31]
Abbiamo visto quale sia la potenza simbolica e metaforica del labirinto che nel tempo si è andata arricchendo di significati e connotazioni diverse. Per chi ha voglia e desiderio di accostarvisi, il labirinto può costituire un’occasione di riflessione, può trasformarsi in un luogo psichico per la narrazione della persona attraverso la sua capacità metaforica di tracciare percorsi e stimolare il pensiero e la meditazione sui temi fondamentali dell’esistenza, i temi della scelta razionale e della paura, della solitudine e dell’attesa, del perdersi e del ritrovarsi, del tempo, del dentro e del fuori, e di molto altro ancora. Sono tutti temi che nascono dalla riflessione sull’opera d’arte e che si prestano ad un approccio guidato attraverso la prospettiva dell’art counselor.
Un’altra delle ragioni che sono all’origine del fascino esercitato dai labirinti è posta in luce ancora da Giovanni Mariotti, un autore più volte citato nel corso di quest’articolo, e si riconduce da un lato all’idea di eterogenesi dei fini, intesa, seconda la concezione del filosofo e psicologo tedesco Wilhelm Wundt, come conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali, dall’altro all’aspetto giocoso che i labirinti racchiudono. “In questo tempo incerto sono molti gli uomini cha hanno interiorizzato la difficoltà di raggiungere gli scopi che si prefiggono. L’oscuro incanto esercitato dalla forma del labirinto (un labirinto multiviario, dove regna dappertutto l’eterogenesi dei percorsi e delle mete) può nascere anche da uno stato d’animo dubbioso; è probabile, tuttavia, che la maggior parte dei visitatori sia attirata dalla prospettiva di affrontare per gioco una sfida non troppo dissimile da quelle che la vita propone quotidianamente”[32].
Una breve nota infine vorremmo dedicarla a quella che, dal punto di vista di un art counselor, potremmo definire un’attività di espressività corporea legata alla leggenda del Minotauro. Secondo quanto ci tramanda Plutarco, Teseo, di ritorno da Creta, si fermò a Delo dove, dopo aver reso omaggio agli dei, eseguì insieme ai ragazzi che aveva salvato una danza consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari che in qualche modo riproduceva i giri ed i passaggi del labirinto. Era la danza delle gru [33] (il cui nome peraltro richiama le spettacolari movenze della danza di accoppiamento di questi uccelli) che rimase in uso a Delo per celebrare, in forma espressiva e rituale, l’uccisione dell’essere biforme e carnivoro e l’attraversamento dell’insidiosa e intricata abitazione-prigione creata per lui da Dedalo, grande architetto della mitologia greca.
Labirinto di Villa Pisani, Stra (VE) – by P tasso (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/)
[1] Cfr.: https://www.vivovenetia.com/it/musei-attrazioni/apertura-labirinto-isola-san-giorgio
[2] Cfr Jorge Luis Borges, Il Giardino dei Sentieri che si biforcano, in Finzioni, traduzione di Francesco Tentori Montalto, in Jorge Luis Borges, Tutte le Opere, Arnoldo Mondadori Editore, III edizione I Meridiani, 1985, vol. 1, p. 690. Il tema del tempo e della sua indecifrabilità ritorna anche nella bellissima poesia Sono (Soy) pubblicata nel 1975 nella raccolta La Rosa Profonda, Tutte le Opere, vol. 2, p. 687.
[3] Jorge Luis Borges, L’Immortale, in L’Aleph, Tutte le Opere, vol. 1, p. 779.
[4] Umberto Eco, Labirinti, Introduzione, Rizzoli, 2015, p. 9. Un’altra trattazione sullo stesso tema da parte di Umberto Eco si può trovare in Dall’Albero al Labirinto, Feltrinelli, 2007, p. 62.
[5] Umberto Eco, ivi, p. 10.
[6] La rete mette a nostra disposizione una quantità enorme di informazioni, di dati, di sapere, resi disponibili direttamente e rapidamente a casa nostra; come è stato osservato: “senza dubbio la rete fa pensare a un labirinto dalle innumerevoli biforcazioni, ma, come la città ne è anche il contrario: il Web velocizza, il labirinto rallenta” (Giovanni Mariotti, Di Labirinto in Labirinto, in Labirinti, Rizzoli, 2015, p. 194). C’è però un aspetto da non sottovalutare: “come il gas, l’acqua la luce, così i mezzi di comunicazione digitali indipendentemente dall’uso che ne facciamo, ci portano gli avvenimenti in casa dispensandoci dall’andare verso di loro. Ciò trasforma il nostro modo di fare esperienza, perché chi vuole sapere cosa avviene fuori casa deve andare a casa, e solo allora, quando ciascuno è ridotto a una monade leibniziana “senza porte e senza finestre” (…), solo allora l’universo si riflette per noi e si offre a portata di mano. Non è più il viandante che esplora il mondo, ma il mondo che si offre al sedentario che è al mondo proprio perché non lo percorre, e al limite neppure lo abita” (Umberto Galimberti, I Miti del Nostro Tempo, Feltrinelli, 2009, p. 232). È una sorta di rivoluzione copernicana, come nota Galimberti, che ribalta il nostro rapporto con il mondo: “se il mondo viene a noi, noi non “siamo-nel-mondo”, come vuole la famosa espressione di Heidegger, ma semplici consumatori del mondo” (ivi). Semplici consumatori che, ognuno davanti alla propria postazione, in una sorta di solitudine di massa, si servono di una rappresentazione del mondo, riprodotta e codificata dal mezzo virtuale, senza farne un’esperienza autentica e condivisa. Se ciò è vero, come utenti della rete, corriamo il rischio in qualche modo di confinarci in essa, alla stregua di solitari minotauri che vivono in un universo labirintico e virtuale, scambiato per la realtà.
[7] Cfr. Michel Jarton, Le Labyrinthe Chretien: l’Eglise, Chemin de Salut in Labyrinthes. Du Mythe au Virtuel Bagatelle, Paris Musé, 2003.
[8] Cfr. il seguente link per l’indicazione di dieci film che anno a che fare con il labirinto: http://www.cineblog.it/post/449294/da-maze-runner-a-cube-10-film-con-labirinti/1
[9] Oltre ai racconti non si può non citare una poesia della raccolta Elogio dell’Ombra (1969), il cui titolo è precisamente Il Labirinto.
[10] Entrambi i racconti sono inseriti nella raccolta L’Aleph.
[11] Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele, in Finzioni, Tutte le Opere, vol. 1, p. 680.
[12] Ivi, p. 684.
[13] Asterione, secondo anche quanto riportato da Pseudo Apollodoro nella sua Biblioteca, era il nome proprio del minotauro.
[14] Jorge Luis Borges, La casa di Asterione, in L’Aleph, Tutte le Opere, vol. 1, p. 820.
[15] Jorge Luis Borges, La Sfera di Pascal, in Altre Inquisizioni, Tutte le Opere, vol. 1, p. 914. L’identificazione dell’universo con un labirinto riappare anche nel già citato Abenjacàn il Bojarì ucciso nel suo Labirinto: “Un fuggiasco non si nasconde in un labirinto. Non innalza un labirinto su un luogo alto della costa, un labirinto cremisi che i marinai avvistano da lontano. Non ha bisogno di erigere un labirinto, perché l’universo già lo è.” (op. cit. p. 869). Analoga identificazione ricorre nel racconto La Morte e la bussola, in Finzioni: “la notte il mio delirio s’alimentava di questa metafora: sentivo che il mondo è un labirinto dal quale è impossibile fuggire”. Tutte le opere, vol. 1, p. 736. Ed è proprio nella notte che può capitare di perdersi in un mondo tormentoso, soffocante, inesauribile, un universo onirico paragonato ad un labirinto, più angoscioso della prigione in cui il protagonista del racconto Il Prigioniero (ne L’Aleph) è confinato e da cui risvegliarsi è un sollievo: “Dall’inesauribile labirinto di sogni tornai, come a una casa, alla dura prigione. Benedissi la sua umidità, benedissi il suo giaguaro, benedissi il foro della luce, benedissi il mio vecchio corpo dolente, benedissi la tenebra e la pietra”. Tutte le opere, p.860.
[16] Friedrich Dürrenmatt, Il Minotauro, traduzione di Umberto Gandini, Marco y Marcos, Milano 1987, p. 59.
[17] Giovanni Mariotti, op. cit., p. 192.
[18] Gilbert Lascault, En Pierre, En Chair, En Mots in Labyrinthes. Du Mythe au Virtuel Bagatelle, Paris Musé, 2003, p. 107.
[19] Mariotti, op. cit. p. 124.
[20] Mariotti, op. cit. p. 175.
[21] Francesco Petrarca, Canzoniere, 211
[22] Charles Perrault, tra l’altro è anche l’autore della inquietante favole di Pollicino in cui il protagonista, fanciullo minuscolo quanto intelligente ed astuto, utilizza l’espediente dei sassolini prima e poi quello delle molliche di pane per non perdersi nella foresta, labirinto tenebroso e pieno di insidie. Ma le molliche saranno preda degli uccelli rivelandosi, diversamente dai sassolini e dal filo di Arianna, una traccia flebile destinata a scomparire prima di poter essere utilizzata.
[23] Cfr. Michele Baridon, Le Labyrinthe de Versailles in Labyrinthes. Du Mythe au Virtuel Bagatelle, Paris Musé, 2003, p. 83.
[24] Cfr. Michele Baridon, ivi.
[25] “Thus through the design of a path that forces a choice and leads to a series of correlated allegorical images, illustrating opposite consequences of a moral choice and representing a subject engaged in choice, behavior takes on metaphorical meaning. Hence this design device is a metaphorical figure in garden art and the examples drawn from the Villa d’Este and the Labyrinth are examples of landscape metaphors of moral choice directed at either the garden patron or garden visitor.” Michael Conan, Landscape Metaphors and Metamorphosis of Time , in Landscape Design and the Experience of Motion, edited by Michael Conan. © 2003. Published by Dumbarton Oaks Research Library and Collection Washington, D.C.
[26] Michael Conan, ivi p. 15
[27] Michel Baridon, op. cit.
[28] Cfr. Charles Perrault, Recueil De Divers Ouvrages En Vers Et En Prose, 1675. Due anni dopo, lo stesso autore nel suo Labyrinthe De Versailles del 1677 offre una descrizione completa del labirinto, includendovi i versi di Benserade, ma senza menzionare la sua precedente lettura “alternativa” delle favole.
[29] “Combattevano insieme gli Ucelli, e gli animali da quattro piedi, ed essendo la battaglia dubbiosa; la Nottola lasciata i suoi compagni, andò a’ nemici; gli Ucelli all’ultimo avendo vinto, mercè dell’Aquila, condannarono la Nottola, che mai più non tornasse agli Ucelli, nè mai potesse volar di giorno. Per questa cagione la Nottola non vola se non di notte. Sentenza della favola. Moralità. Chi lascia il compagno nelle avversità, non deve esser partecipe della sua felicità.” Esopo, Favole, traduzione dal greco di Giulio Landi (1545), Degli Ucelli, e degli animali da quattro piedi. In https://it.wikisource.org/wiki/Favole_di_Esopo
[30] Di seguito le due versioni della morale della favola di Esopo (cfr Michel Bardon, op cit., p. 88)
Benserade: “Guerre des deux costez sanglante, & meurtrière,
Dont pas un ne voulut avoir le démenty,
Mais la Chauve – Souris trahissant son party,
N’osa jamais depuis regarder la lumière.”
Perrault: “Quand on a pris parti pour les yeux d’une belle, Il faut être insensible à tous autres attraits, Il faut jusqu’à la mort lui demeurer fidèle, Ou s’aller cacher pour jamais.”
[31] Gilbert Lascault, En Pierre, En Chair, En Mots in Labyrinthes. Du Mythe au Virtuel Bagatelle, Paris Musé, 2003.
[32] Mariotti, op. cit. p. 192.
[33] “Nel viaggio di ritorno da Creta Teseo si fermò a Delo. Dopo aver sacrificato al dio e offerto come dono votivo l’immagine di Afrodite che aveva ricevuta da Arianna, eseguì insieme coi ragazzi una danza che dicono sia ancora in uso presso quelli di Delo e che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto: una danza consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari. Questo genere di danza quelli di Delo chiamano «la gru», secondo quanto afferma Dicearco.” Plutarco, Vite Parallele, UTET Libreria, Torino, 2005, Classici greci, curatore Antonio Traglia, pag. 876